È un compito certamente complesso e delicato quello che si propone Eleonora Rossi:
fare fotografia, in modo anche piuttosto tradizionale, prevalentemente analogico, quindi in continuità con la storia che ha preceduto l’era digitale, in un’epoca che comunque la si voglia vedere ha rivoluzionato come nessuna altra i modi di produrla, mettendo a disposizione di miliardi di persone apparecchi sempre più sofisticati attraverso i telefoni cellulari.
Chiedersi quale possa essere, nell’epoca dei selfie, il significato di un certo modo di fare fotografia, contemplato dalla Rossi in tutti i suoi generi canonici, dal viaggio al reportage, dal ritratto al fashion, è un po’ come domandarsi quanto potrebbe valere scrivere poesie se tutti si sentissero potenzialmente dei Dante Alighieri.
La risposta della Rossi a riguardo mi pare peraltro chiara e convinta: nella pratica di certa fotografia, nella sua materialità imperfetta rispetto alla precisione del numerico, evidenziata credo volutamente in certe grane di stampa, c’è un valore distintivo che non si giustifica solo con la storia.
C’è la capacità espressiva di aderire meglio all’approssimazione congenita del genere umano. Il bello e l’interessante in questo mondo stanno in ciò che non è perfettamente compiuto, lasciando ancora adito alla nostra azione di completamento, a una sensazione, a un pensiero da associare al visibile.
Due, forse, le lezioni che la Rossi tiene maggiormente a mente, l’istant décisif di Cartier-Bresson e l’extreme close-up, a precedere gli altri piani in successione, di William Klein.
In entrambi i casi, una realtà che ti viene rivelata secondo aspetti al di fuori della possibilità di percezione dell’uomo, come se la macchina, ha detto qualcuno, possedesse un inconscio autonomo dal nostro.
Eppure è in quella realtà ”disumanizzata” che riconosciamo il massimo dell’umanità esprimibile, il palpito sfuggente della vita, il più vero, che come un virus visto al microscopio si materializza nel corpo altrui, venendo catturato e ingabbiato.
Eccola la strada da battere: il selfie è il rumore di fondo formidabile nelle dimensioni, ma confuso, disorientante. La fotografia è il suono.
Vittorio Sgarbi